Mi cuci foglia
ad occhi disarmati ti cedo il divenire.
Mi scuci
mi irrisolvi
e il piacere è il punto dei sensi
in cui l’addosso si fa corpo
coniuga la fronte a ritroso
a gocciarci tutte le vene del mondo.
Mi cuci foglia
ad occhi disarmati ti cedo il divenire.
Mi scuci
mi irrisolvi
e il piacere è il punto dei sensi
in cui l’addosso si fa corpo
coniuga la fronte a ritroso
a gocciarci tutte le vene del mondo.
Hanno parole, gli occhi
sono pentole di cibo sfatto
o sacchi membranosi e flosci
in cui rimane un testamento sul fondale.
Gli occhi hanno stagioni
marroni
verdi
azzurre
di inverni come di mare
di rossi perché calpestati.
Blindati o fragili
ogni oltre sostanza
strisciano grotte
innescano cielo.
Peggiore puttana
leccata
smembrata
all’Ego asservita
in quel che ne resta, sputata.
Due
artigli ad espiantare midollo
due che nè di bestia nè di uomo si possono dire.
Due,
le dita di Chiara
ramoscelli che annaspano e tremano
ogni racconto.
Il Creato
al capezzale di un albero scortecciato
ascolta a terra e numera in passi la distanza.
“Tu sarai il mio motivo di vivere ancora.”
C’è una macerazione d’occhi
sperticati a enucleare come fine dell’universo
questo amare, quando basterebbe adagiarsi
all’evidenza di un amore che si aggrappa
in tutto, e lì geme e ride e feconda in cuore.
A chi non piace il cielo
e chi non favoleggia sfogliandone il velo
ci sono minuti in cui lo faccio spesso e di più.
Ma sono piccola
un pianeta raggranellato
e ti amo, piccolo pianeta di incertezze.
E che l’universo
ci faccia da satellite
uno specchio di immortalità lo posso anche accettare.
Narra la favola
che nel primo tuo vagito fosti costola,
organo a percuotere
per suonarci via la colpa.
Narra la favola
che l’ombra sia sposa a infinito della vita
e tu, Donna, sei vita
senza mai possibilità
di toglierti le colpe
-neppure di notte, chè le ombre non ci sono-.
Dovere e sacrificio
sono le fabbriche dell’infelicità.
Mi sono licenziata.
Sei caduto
giù per quella profondità
in cui la pelle si coriacea in osso
senza stirpe di midollo.
Sei caduto
in disgrazia di botola.
Vene…
questa natura ribelle
lancia vene sul tappeto di cemento
che armato- ma paziente- crepa.
Clorofilla innesta calce.
Setticemia.
(foto Paolo Pavan)
Il coraggio
nasce come rinuncia
nutrita a deserto.
Cresce, solo se coglie grappoli di vene
dal seno della speranza,
sconfigge ogni tomba
innalzata da chi lo millanta
da chi lo usa come amido per drizzarsi il portamento
da chi lo mercanteggia.
Il coraggio
sputa, batte i pugni e sputa
illimitato limite
nel non riuscire a vivere
al di sotto dell’orizzonte.
Passi, sottobraccio alla vita
lampioni che inseguono luce
sporgono sul suo cappello bianco
a riflettere le pulsioni di gote.
E’ fatto di ombre
quell’uomo che le abita il cammino,
lui racconta, lei annuisce
impercettibile come tempo
nella sua forma di goccia.
Insieme
la paura è dei posteri
insieme
i ciottoli di inciampo li scorre via il superfluo.
Il fiato
sostanzia carne e tarme.
Corrosi i volumi
i visi nuotano
sotto la falda di un bacio.