Si accede al cuore segreto della silloge di Veruska Vertuani già soffermandosi e addentrandosi negli elementi riportati in copertina, ovvero in quelli più esteriori e immediatamente visibili del suo libro: il titolo ossimorico della silloge (Ossa di nuvole), la “lapidaria” immagine fotografica scelta (titolata librazioni) e il verso folgorante che da quell’immagine le è photo-poieticamente affiorato:
Imbarco aria dagli occhi.
Embolia di ogni immagine.
Sgrano in angelo.
Ognuno di questi elementi, colti nel loro sofisticato intreccio, mi ha suggerito l’idea percettiva che i versi di questa silloge consistano essenzialmente in “librazioni di una scrittura danzante”.
La spiccata sensibilità dell’Autrice per le arti visive (specie per la fotografia), l’attitudine alla composizione foto-poetica (lo scrivere da e attraverso le fotografie, aspettando che le immagini fotografiche prendano il loro verso lirico) e la passione per la danza, a lungo praticata, fecondano alla radice la poesia e la poetica di Veruska Vertuani. Muovendo da questa premessa è possibile intendere la sua scrittura lirica come una “scrittura di Luce” (photo-graphia) e una “scrittura di voce” che confluiscono e si intrecciano, di verso in verso, in una sinestetica e performativa “scrittura della danza” (choreo-graphia). Il termine librazione, adoperato come titolo dell’immagine di copertina, sta letteralmente per “azione del librare o del librarsi” ma anche per “oscillazione, ondeggiamento”. É una parola che foneticamente, non casualmente, gioca con altre parole assonanti: vibrazione, liberazione, libro e azione. Ora, cosa sono i versi della Vertuani se non vertignosi “ondeggiamenti e oscillazioni” tra le viscere buie della terra (che custodiscono le bianche e dure “ossa”) e la volta aperta e lucente del cielo (dove non cessano di fluire le bianche e metamorfiche “nuvole”)? Cosa sono i suoi versi, se non funambolazioni ardite tra scritture di luce e scritture di voce, ingegnose esitazioni tra “suono” e “senso”, tra la cura di “dire”e quella di “tacere”, librazioni e sospensioni del continuum temporale nella ricerca fotopoietica di Istantanee epifaniche, assolute e senza tempo ? Così i versi della nostra poeta danzatrice si possono leggere come slanci e scatti, torsioni e volteggi, elevazioni e cadute di una scrittura, intimamente ossimorica, tanto aerea e onirica quanto cruda e carnale, calligrafia di un corpo lirico che ritmicamente si muove e si scompone nello spazio della pagina bianca.
A danzare, in questa scrittura che non conosce tregua, non è solo la voce lirica di un corpo, ma l’intero “corpo della voce” con tutte le sue articolazioni semantico-sonore, le sue giunture ritmiche, i suoi tessuti timbrici e tonali, il suo colore e il suo calore, la sua profondità evocatrice, il saliscendi dei suoi volumi, l’andirivieni delle sue eco e le sue forme fluide, le sue traiettorie impreviste…
La Voce è sempre quella di una Musa insonne e senza palpebre, di un’intima Straniera che sempre “ditta dentro”, dicendosi in tutto ciò che tace e tacendosi in tutto ciò che dice; Voce che per sua natura vuole iscriversi e incidersi nel foglio che la fermi ma che al contempo aspira sempre di nuovo a librarsi dal libro, a sciogliersi dalla muta scrittura che la pietrifica, a evadere dal recinto della pagina nella libera e dispersiva effusione del canto (a rimarcare che in poesia l’antico detto si ribalta: scripta volant!).
Tutto questo perché, in definitiva, i versi di Veruska sono varchi attraverso cui la Vita del Tutto irrompe ed esonda nella vita delle cose e dei “Frammenti di Crisalide” (titolo dell’opera precedente di Veruska Vertuani). Si tratta di una scrittura viva, erotica/ieratica, profetico/ironica, ipercondensata, magmatica, tumultuosa, che sembra sempre sul punto di rompere gli argini del rigo, della strofa, della struttura testuale, i margini stessi della pagina. Scrittura implacabile capace di rigenerarsi costantemente dall’incontro/urto con le cose e gli elementi, i volti e i gesti, i sogni e le idee, le opere d’arte. Tutto è vivificato nella scrittura di Veruska: le ossa sono di nuvole, le pietre fioriscono, le ferite diventano feritoie di luce e punti di innesto delle ali, la morte stessa si scopre gravida e feconda, il passo a vuoto si fa passo di danza, le tenebre irraggiano. Ogni verso eccede se stesso e dice anzitutto la sua auto-eccedenza, la sua incapacità di contenersi nel detto insieme al suo desiderio di dire l’indicibile Silenzio da cui viene e a cui rimanda. Nessuna posa aulica, nessuna tendenza misticheggiante: il verbo poetico di Veruska Vertuani cerca sempre, istintivamente, lo skandalon della sua nuda incarnazione che si compie con la stessa carne che si fa verbo nel canto.
Nella luce della felice co-incidenza di evento, suono e senso che il verso opera e porta in sé, il poetare di Veruska sembra scandito dal battito stesso del suo cuore pensante, delle sue vene celesti, delle sue radici profonde e delle sue ali fragili, dal battito delle sue ciglia che ad ogni istante apre/chiude orizzonti, ri-scrive visioni e produce tagli compositivi che sono brandelli di luce e di canto. Una scrittura della voce che danza con i suoi silenzi quella di Veruska, più precisamente di una voce che anela a scriversi dall’inesauribile silenzio-grembo da cui sente di riceversi e di provenire; attraverso il gioco strutturante del silenzio-pausa; nel silenzio dello spazio risonante; verso il silenzio-destinazione e il naufragio ultimo che lo attende.
Un dire, quello di Veruska, intento ad udire la Voce della sua muta Musa e il suo stesso dirsi dal Silenzio, capace di tradurlo senza tradirlo o provando a tra-dirlo il meno infedelmente possibile; il verso lirico è tale quando è in grado di non rompere il silenzio da cui ha preso parola ma sa custodirlo proprio dicendolo, cantandolo, articolandone la lingua segreta e inesauribile.
Alla luce di quanto provato a dire intorno a quella che ho definito “scrittura danzante”, desidero concludere recuperando e approfondendo il senso di quel verso enigmatico con cui avevo iniziato, verso che funge non da didascalia ma da canto e contro-canto all’immagine fotografica: l’aria/soffio/vento che Veruska Vertuani imbarca dai suoi occhi chiaroveggenti, costantemente spalancati al vedere, è ambiguamente la stessa che provoca “l’embolia di ogni immagine” ma anche la stessa che le fa dire , estaticamente, “sgrano in angelo”.
Angelo librantesi e perdutamente terrestre.
Precipitato in un vortice di luce, di voce, di danza.