Aldidove

Si cerca lo spazio tra carne e vena
il vuoto a perdere in bossoli di polvere
ci si occlude una narice per stare folli
e giù nel pozzo, a ingozzarsi
dell’ombra persa poco prima
quando una lama spana la vita
e l’occhio che muore cerca il suo dove.

Nel nome

Metto in soffitta gli occhi
per come, nel tuo nome, li ricamasti.
Azzurri, del tono che il vento veste quando mescola il cielo
azzurri come il mare
che disegna la sabbia e non puoi aggiungerci nulla
azzurri come l’apnea
quando ti immergi e vedi la limpidezza del silenzio.
Metto in soffitta gli occhi
copro il lucernaio
spengo il camino. Rimarrò in un angolo
finchè mi incontrerai su mille volti
e per mille volte non sarò io.

C’è un lenzuolo azzurro nel letto del mio nuovo amore.

Intorno a te

Intorno ai tuoi fianchi
cento e più monete
quando la notte ti viene a cercare
suonano il chiarore della neve

intorno alle braccia
annodi carezze di latte
stringi il fuoco
sulle ali che ti fanno Fenice

e danzi
nel gioco del vento sei ancora più bella
intorno a te sorrido
per farti svegliare in un sogno.

Che ragione hai

Foglia, che ragione hai
di stare al vento
se ti contorce ai suoi discorsi
e sei sospesa di parole.
C’era motivo di stare sul ramo
almeno in un punto avevi l’abbraccio
almeno la linfa.
La terra ti guarda
sorride e si apre il corpo

nulla di meglio cercava
che un cuore disposto a cambiare.

In grado di amarmi

Sono in grado di amarmi
con ogni alfabeto
a caratteri letti o dettati
su pagine di righe o quadri
da destra a sinistra quando mi rintano
dal basso in alto come va la gioia.
Vorrei mi amassi con diversa sintassi
corsivo stampatello, tratto mancino o destrorso
e ciononostante stessi ancora in tema
che in tempo lo sei sempre
e il sempre non te lo dovrei.

Il codice della memoria

Si era come fili d’erba
quando per sbaglio ci crescono in mezzo le rose
che strappi e rimangono le spine
il limite dietro cui stare.
Quell’uomo non sa di avere ancora gli occhi
ha perso i sensi e il nord della sua vita
in piedi in fila in codice
lui e quegli altri valgono quanto le righe di stracci.

Quando ricordi, seduto in poltrona
si è come fili d’erba
a destra e a sinistra lo spazio rimbomba
di tutte le ombre che cercavi per nome.

A macchie di lacrime ma sei ancora in vita
ascolti chiamarti e il polsino rivela
il codice della memoria
l’ultimo numero che contasti
dai lividi in cielo
quel giorno di comignoli neri.

Una poesia oscena

È una poesia oscena
di unghie corte sulla schiena
questo fiore di loto che profuma di lenzuola
sfatte
e noi a galla, tremanti colli al cielo
chissà se sta piovendo l’alba
se la luna arrossa un ultimo respiro
prima che scenda la pace
con te a segno di croce
tra le mie piume di pece.

E se domani

Non c’è giorno che cominci
senza il mio padrone
i suoi occhi sono due tizzoni
ai bordi di quest’alba

mi porta in campagna
apre la portiera
ho il guinzaglio lungo
fin dove arriva sera

mangio i suoi avanzi
la groppa curva al sole
mi chiama con un fischio
non si ricorda il nome

posso pisciare
senza allontanarmi
mi chino e mi scappa una canzone

chissà se domani cambierò
e inizierò a latrare.

Vestirai il vento

Ti arriverà il rosso in gola
l’arsura di me a gambe accavallate
su quella sedia che si dissolve
fra i titoli di coda.
Arriverai
quando leccherò le briciole della festa
dalla tovaglia sporca di vino
e mi troverai nuda, in diluito affanno
sotto le pieghe del bicchiere.

Proverai a toccarmi
con quell’indole per cui ti ho amato.
Ma vestirai il vento.